Pietre policrome in Liguria tra i secoli XVI e XVIII
La Liguria storicamente ha una tradizione legata alla lavorazione delle pietre per due ragioni fondamentali: la prima deriva dalla presenza di alcune cave attive, che hanno consentito di spronare l’utilizzo delle differenti pietre nell’architettura locale sia laica che religiosa, la seconda scaturisce da ragioni socio – politiche legate, in particolare, per la natura commerciale dell’antica Repubblica di Genova, presso la quale, attraverso il Porto, giungevano tonnellate di marmo provenienti da cave europee, italiane e liguri, destinate alle botteghe dei “marmatori” presenti sul territorio.
La lavorazione delle differenti tipologie di pietre era profondamente radicata nella Repubblica come dimostrato dalla presenza della corporazione degli “scultori” presso la sede di Santa Sabina, che vigilava sull’attività dei propri membri, per garantire che venissero preservate ed applicate precise regole di lavorazione del marmo, tecniche di estrazione e modalità di trasporto.
Alla fine del XVI secolo la necessità di avere marmi e pietre disponibili per la lavorazione fece intraprendere la ricerca di nuovi giacimenti, per sviluppare i cantieri liguri ed altresì per esportare il prodotto nei centri artistici italiani e stranieri, presso i quali la domanda di pietre policrome aumentava in rapporto al diminuire della disponibilità dei marmi antichi di recupero.
In Liguria la lavorazione delle pietre ebbe un grande momento tra il XVI ed il XVIII secolo.
I marmi liguri disponibili sul territorio in quell’epoca erano provenienti da Portovenere, Levanto, dalla Val Polcevera, Pegli e Sestri Ponente. A questi si aggiungevano i marmi importati nella Repubblica attraverso il monopolio commerciale gestito dai genovesi, che consentiva l’arrivo di marmi bianchi, grigi, la breccia violacea di Seravezza, provenienti dalle alpi Apuane, il broccatello di Spagna proveniente da Tortosa, il diaspro rosa di Sicilia, la breccia d’Arzo dal luganese, il rosso di Caunes, molto utilizzato nell’architettura religiosa, in particolare si ricorda la chiesa genovese dell’Annunziata.
Molti dei marmi presenti sul territorio ligure erano provenienti da Carrara, ad esempio il marmo bianco, indispensabile per statuaria e la scultura decorativa nonché per l’edilizia, gli arredi urbani ed abitativi.
Alcuni dei marmi utilizzati all’epoca provenivano dalle cave della Val Polcevera, vallata che rappresentava il raccordo tra il mare e la pianura padana, che a partire dal Medioevo era considerata via commerciale preferenziale della Repubblica per i suoi rapporti con l’Entroterra. Nella zona di Pietralavezzara erano presenti due oficalciti a predominanza cromatica, verde e rossa, percorse da venature bianco/grigie, la cui estrazione risaliva già dal 1572.
L’estrazione di questa pietra proseguì sino al 1938, con un’estrazione annuale di circa 1500 tonnellate. Si caratterizzava con tonalità rossastre simile al rosso di Levanto. Per tale similitudine questo marmo fu chiamato rosso di Polcevera.
Era presente sul territorio ligure anche una pietra verde, macchiata di bianco e rosso, molto bella da vedere, proveniente dalla valle di Pozzevera a 7 miglia dalla Città.
Nelle zone di Sestri Ponente, Pegli e Prà sempre nel XVII secolo era estratto marmo verde.
Si evidenzia altresì l’alabastro di Sestri Ponente, molto ricercato per la sua somiglianza con l’onice e l’alabastro dell’Egitto. Ancora oggi nella Val Varenna si possono vedere i residui delle antiche lavorazioni in stato di abbandono.
Oltre ai marmi del ponente, molto importanti sono state le pietre del levante, tra cui il rosso di Levanto, dall’omonimo borgo della Riviera di Levante, in cui si trovavano le cave. L’estrazione di questa pietra risale al 1191. Questa pietra fu impiegata nei portali della cattedrale di San Lorenzo a Genova. Nel XVII secolo veniva coltivato in tre zone: a Levanto, tra Castagnola e Framura, a Framura sul mare, da cui deriva il toponimo “Punta dei Marmi”, anche detto “Porto delle colonne”, in quanto da questo sito i blocchi venivano imbarcati, come conferma un approdo per le imbarcazioni, scavato direttamente nella roccia.
Altri marmi liguri molto utilizzati ed apprezzati erano: il portoro o “negro e giallo dell’Isola Palmaria di Portovenere”, il nome scaturiva dall’attività di estrazione a confine tra Liguria e Toscana. Questo tipo di pietra era un calcare puro ed era estratto ai piedi della rocca di Portovenere. Questo marmo, definito “portoro”, è nero con sfumature gialle, simili all’oro da cui prende il nome. Nei casi in cui le sfumature tendevano al grigio il nome diventa “portargento” o “negro argentato”, oppure quando le sfumature tendono al bianco è rinominato “negro e bianco”.
Queste pietre ebbero anche fortuna all’estero come attestato dal fatto che nel 1660 Pierre Pugget andò a Potovenere per acquistarvi i marmi per i suoi committenti parigini. Il portoro di Portovenere e dell’Isola Palmaria fu anche acquistato dal Re di Francia nel 1693 circa, insieme ai marmi bianchi di Carrara.
Ricordiamo comunque che in Liguria, grazie alla forza commerciale avuta nell’epoca, furono costantemente disponibili i marmi provenienti dalla Versilia (il bardiglio detto “Cappella”), usato spesso come piastrelle per pavimenti alternato a quadretti bianchi, a questo marmo si aggiunse dal ‘500 e sino al ‘700, il marmo d’Arzo, importato grazie alla presenza di una colonia di marmorari lombardi a Genova. Da Arzo il marmo veniva trasportato con carri o con animali da soma fino a Como e qui tramite l’Adda arrivava a Milano. Il viaggio del marmo d’Arzo proseguiva verso Genova sul fiume Po’, che consentiva la movimentazione dei blocchi di maggior mole, attuando la circumnavigazione dell’intera penisola sino al porto di Genova.
Pavimentazioni e risseau
Gli artigiani genovesi appresero la tecnica della realizzazione del seminato in graniglia dai veneziani nel XVII secolo.
Uno stimolo irresistibile per gli schivi ma intraprendenti maestri genovesi, che già nel secolo successivo iniziarono a caratterizzare queste pavimentazioni con decorazioni proprie in mosaico di marmo di ogni taglio e foggia.
I materiali utilizzati per la realizzazione di questi pavimenti erano tutti materiali poveri, di recupero ma sapientemente armonizzati.
I pavimenti alla genovese erano utilizzati sia per i palazzi di città che per le ville e rappresentano un’antica tradizione ligure, in quanto sono legati alle materie prime storicamente identificative della Liguria: l’ardesia della Val Fontanabuona e la pietra bianca delle cave di Finale.
Si utilizzavano per la realizzazione di questi pavimenti “i quadretti” di Finale ed anche i “laggionetti”, verdi o blu provenienti dalla Val Polcevera.
La particolarità di questo lavoro deriva dall’abilità dell’artigiano di accostare perfettamente con “tagli” assolutamente diritti i singoli “quadretti” o lagionetti, ottenuti con attrezzature limitate e semplici.
Questa pavimentazione identificativa della nostra regione, risale alla tecnica nata a Venezia nel ‘500, basata sull’utilizzo di materiali poveri spesso ottenuti dagli scarti dei laboratori degli scultori e scalpellini, che sfruttavano i giochi cromatici delle differenti pietre utilizzate per creare una vera e propria scenografia, ottenuta dall’impasto di pietre di mare colorate.
Il pavimento alla veneziana arriva in Liguria nel ‘600 inizialmente all’interno delle abitazioni sia signorili che meno sontuose. La differenza del tipo di pavimentazione più o meno lussuosa derivava dalla preziosità dei materiali scelti dai committenti. Tale tecnica di realizzazione dei pavimenti resta invariata sino al ‘900, con variazioni dovute solo allo stile delle decorazioni, adattato alla moda del tempo.
Grazie all’esperienza ed alla bravura conseguita dagli artigiani liguri, il nome dei pavimenti divenne “alla genovese”, in quanto si contraddistinguevano per i disegni, l’inserimento di ornamenti speciali alle linee dell’inquadratura parallela alle pareti.
Il pavimento alla genovese viene realizzato preparando un sottofondo con materiale composto da “cocciopesto” e sabbia, con sassolini le cui dimensioni variano da 4 a 12 mm di lato, impastato con calce.
Dopo aver steso tutto, si procede alla spianatura con il rullo e con il “ferro”, una sbarra piatta d’acciaio, necessaria per spianare ulteriormente la superficie, soprattutto nelle parti non raggiungibili dal rullo. Si procede poi ad una seconda stesura del sottofondo ed alla pressatura. A questo punto si può procedere alla posa delle decorazioni, che formeranno il mosaico per impreziosire esteticamente il pavimento. La decorazione è disegnata su un foglio di carta lucida opportunamente traforata e viene posta sulla superfice liscia ottenuta in precedenza. Attraverso l’operazione di spolvero con calce bianca, viene tracciato il disegno o le linee della decorazione prescelta. Si rimuove il foglio di carta e nella traccia resa visibile dalla calce, si versa la “pastina”, un composto che ha lo scopo di tenere fermi i cubetti di marmo da collocare subito dopo, unitamente ad un eventuale strato di graniglia di contorno.
Si procede quindi alla realizzazione di un “letto di semina” pronto a ricevere la graniglia colorata di tre misure, da stendere procedendo da quella più grossa a quella minuta, in modo da riempire tutti gli spazi, anche quelli minimi, “affogando” le decorazioni precedentemente sistemate.
Per far affiorare la graniglia ed i mosaici è necessaria un’opera di levigatura. Anticamente questo processo veniva realizzato con l’utilizzo di pietre abrasive fissate all’estremità di un bastone, il “frettun” genovese, che aveva tratto origine dal corrispondente “orso” veneziano, e passate ripetutamente sul pavimento da spianare. Il trattamento definitivo sul pavimento era ed è la lucidatura, tramite l’utilizzo di olio di lino cotto, col quale si riempiono i pori ancora aperti della superficie e li si conferisce l’aspetto elegante e cromatico voluto.
Nei primi del ‘900 in Liguria venne creata una variante della modalità di realizzazione dei pavimenti sopra descritta, consistente nell’utilizzo del cemento al posto della calce per la realizzazione del sottofondo e nelle altre fasi del lavoro.
La modifica ha permesso un notevole risparmio di tempo per un più rapida asciugatura degli impasti nonché un migliore aspetto cromatico del pavimento finito, mediante l’inserimento nel cemento dell’ossido di ferro, che conferisce al fondo eleganti colorazioni.
Una storia fatta di arte quella che raccontano i “Risseau” dei sagrati delle chiese e dei giardini della Liguria.
Se vi capita di osservare le geometrie bianche e nere, che come ricami di pietra adornano i sagrati delle chiese, oppure i sentieri dei giardini, o le piazzette di Liguria, sappiate che state guardando un “Risseau”.
“Risseau” è una tecnica che sconfina nell’arte di decorare con una materia prima “macrobiotica” del territorio ligure. Pietre raccolte sulle spiagge, nelle cave, lungo il greto dei torrenti che a partire dal XVII, XVIII secolo sono sinonimo della tecnica creativa e della tenacia degli artigiani liguri.
Per dare un’idea del lavoro certosino della posa, basti sapere che la copertura di un piccolo sagrato richiede circa tre milioni di ciottoli. E’ al gusto per i mosaici dell’epoca greco-romana che attinge questa tecnica, che attraverso un disegno precostituito con la tecnica del traforo su di una malta di calce e porcellana in polvere, che fa da sottofondo ai ciottoli selezionati per forma e colore e posati e livellati battendoli con mazzette da pavimentista in modo da finire assolutamente in giornata, sperando nella clemenza del tempo, la porzione di disegno precostituito.
I colori predominanti sono il bianco e il nero, quasi a sottolineare la scarsa propensione ai mezzi toni del carattere dei liguri, più raramente troviamo anche il rossiccio e il rosa.
C’è chi attribuisce la tradizione di decorare i sagrati delle chiese con l’acciottolato policromo, all’antica usanza di cospargere di petali di fiori le strade durante la processione del Corpus Domini, quasi a voler cristallizzare per tutto l’arco temporale dell’anno questo gesto di devozione. Ma non solo i sagrati delle chiese, anche i sentieri delle ville nobiliari genovesi e gli atrii degli antichi palazzi sono adornati da preziosi “Risseau” colorati, oltre ai caruggi e alle piazzette di molti centri storici.
Stilare una classifica tra i più belli da vedere, data la quantità e l’omogeneità di diffusione sul territorio, risulta piuttosto difficile, comunque, già sapendo di fare moltissimi torti, vi segnaliamo quello della settecentesca chiesa di Santa Croce a Moneglia, sorta sopra ad una pieve del 1100, che prese il suo nome dal ritrovamento di un crocifisso bizantino ritrovato sulla spiaggia dopo un naufragio. Oppure quello della pavimentazione davanti alla chiesa di San Erasmo, nel cuore di Santa Margherita Ligure e, sempre qui, quello dei giardini di Villa Durazzo.
Spostandoci a Genova il giardino pensile di Palazzo Reale o sulle alture quello del Santuario della Madonnetta con il suo splendido Presepe visitabile tutto l’anno. Comunque basta essere un minimo attenti e vedrete che, ovunque voi siate in Liguria, dietro a qualche angolo vi apparirà la trama bianco e nera d’altri tempi di qualche tappeto di ciottoli liguri.
La produzione preindustriale della calce nel Genovesato
In Liguria sono numerose le tracce del ricco passato produttivo legato alla fabbricazione della calce.
Le principali zone di produzione si trovano nel Genovesato nelle aree aventi formazione dolomitica corrispondenti alle zone di Sestri Ponente (Monte Gazzo), di Cogoleto, e nel Savonese, in corrispondenza del giacimento dolomitico del Monte Mao (Vado Ligure), nonché, esempi minori, sussistono anche nei territorio della Spezia e di Imperia.
La produzione della calce si è sviluppata nei siti in cui sono presenti affioramenti di calcari o dolomie in prossimità di comode vie di comunicazione ma, a livello di produzione “artigianale” e solo per esclusivo uso locale, anche in siti difficilmente raggiungibili.
L’affioramento della roccia e la possibilità di trasporto del prodotto sono da sempre state condizioni necessarie allo sviluppo dei siti produttivi, in quanto il prodotto finale, rispetto ad altri materiali edili, non era costoso e i produttori non sarebbero riusciti ad ammortizzare gli alti costi di escavazione o di trasporto legati all’approvvigionamento in siti distanti dal luogo di impiego. La presenza nei dintorni della città di Genova di un unico rilievo di formazione dolomitica, unita all’abbondanza e all’ottima qualità della pietra da calce ivi cavata, hanno determinato lo sfruttamento ininterrotto di tale risorsa almeno a partire dal XII secolo.
Una così intensa attività produttiva ha modificato nei secoli il territorio, alternandone l’aspetto e disseminandolo di tracce e manufatti, che testimoniano l’avvicendamento dei siti di cava e l’evoluzione dei tipi di fornace.
Ancora oggi sono visibili sui fianchi del monte alcune cave storiche, anche se le coltivazioni più recenti hanno in parte cancellato le più antiche, impedendo di riconoscere geometrie e segni lasciati dai cavatori.
Undici fornaci da calce, ancora oggi sopravvissute ai margini della città, in un tessuto ancora poco urbanizzato, facevano parte in origine di un insieme più ampio che si estendeva anche ai litorali di Sestri Ponente e Cornigliano. In seguito all’urbanizzazione ottocentesca, che ampliò notevolmente gli abitati costieri in un graduale e ostinato contendere di spazio alle alture dell’entroterra, il numero delle fornaci si è progressivamente ridotto.
Rimangono tuttavia numerosi toponimi tra i quali Calcinare, Bianchetta, Fornace, Bric la Bianca, che individuano ancora oggi zone di estrazione di pietre e produzione della calce.
Le calcinare sopravvissute si trovano a Sestri Ponente e in particolare sotto i versanti meridionali e orientali del Monte Gazzo. Il Monte è costituito da calcare dolomitico con solcature di carbonato di magnesio accentrato in vene formazione marina. Le fornaci, che ancora oggi caratterizzano il paesaggio dell’entroterra di Sestri Ponente sono rimaste in funzione sino agli inizi del ‘900, accanto a nuovi impianti realizzati per rispondere alle richieste di una maggiore quantità di prodotto a costi minori, alla ricerca della competitività con il “nuovo” materiale cemento.
La maggior parte delle unità produttive si compone di una fornace e di una casa attigua con magazzino. Queste ultime sono in genere edifici poveri destinati a essere l’abitazione del fornaciaro, che solitamente aveva la calcinara in locazione e solo raramente ne era il proprietario. La figura del calcinarolo, inteso come colui che produce la calce, già nel ‘200, spesso con coincideva con quella del proprietario della fornace. Si riscontrano molti atti di locazione di fornaci con annesse cave, concessi spesso anche a più di una persona e a volte sub-affittati.
Nei secoli successivi, la produzione vide in Liguria i proprietari delle fornaci entrare con forza nel ciclo della calce.
Si assiste così al passaggio della figura del calcinarolo, che gestisce in prima persona il lavoro alla fornace, all’imprenditore, che organizza l’intera filiera produttiva, il commercio, ed allo stesso tempo, gestisce più di una fornace con una produzione continua.
Fonti: