Il termine “pret – à – porter” è entrato nel vocabolario della moda alla fine degli anni Quaranta, quando i francesi incominciarono ad utilizzarlo per tradurre il termine “ready to wear” coniato negli Stati Uniti.
Il linguaggio della moda faceva trapelare l’influenza del processo di americanizzazione che stava investendo l’Europa, dimostrando che l’equazione, “moda uguale élite”, apparteneva al passato. Il “ready to wear” era una moda creata appositamente per la società di massa di un paese, gli Stati Uniti, che rappresentava un modello di democrazia e benessere. Anche il lessico della moda italiana si aggiornò, introducendo due nuove categorie di prodotti: la moda boutique e l’alta moda pronta.
Negli anni Trenta gli Stati Uniti erano stati la nazione su cui più di ogni altra si erano abbattute le conseguenze della crisi del 1929 e che più di ogni altra aveva adottato misure severe contro le importazioni. Tra i generi più colpiti dagli aggravi daziari figuravano i pizzi di Calais, i cappelli, i ricami, il tulle e i lamé francesi, oltre alla seta, pelletteria ed ai capi di abbigliamento di lana.
Dopo dieci anni circa di rapporti commerciali intralciati dal protezionismo, la rottura con la Francia si consumò con l’occupazione Nazista iniziata nel 1940. Negli Stati Uniti gli eventi politici europei segnarono l’avvio di un periodo contrassegnato dalla valorizzazione delle risorse creative autoctone e dalla autonomia dai modelli di leganza e di bellezza proposti da Parigi.
Alla fine della Seconda guerra mondiale il ruolo di “trend setter” dell’haute couture parigina appariva ormai seriamente compromesso.
Il successo del New Look lanciato da Christian Dior nel 1947 non riuscì a mettere in discussione la nuova leadership conquistata, anche nel campo della moda, dal Paese che si poneva alla guida del mondo occidentale.
Nel nuovo scenario internazionale venutosi a configurare dopo la guerra, la moda italiana acquisiva un insperato vantaggio competitivo: le creazioni italiane erano raffinate, vantavano una specifica identità che derivava dal sapere artigianale e avevano l’invidiabile caratteristica di essere poco costose perché in Italia la manodopera costava poco.
Per restare al passo con i tempi, anche il lessico della moda italiana si aggiornò, introducendo due nuove categorie di prodotti: la moda boutique e l’alta moda pronta. La moda boutique, che negli anni Cinquanta decretò il successo delle sfilate fiorentine, contrassegnava una produzione caratterizzata dalla qualità dei materiali e dalla artigianalità delle tecniche di confezione, realizzata su scala sufficientemente ampia da poter essere commercializzata dai grandi magazzini americani, che si collocavano nella fascia alta del mercato.
L’Alta moda pronta era invece costituita dalle seconde linee prodotte dalle case di alta moda italiane. Si trattava di collezioni che traevano ispirazione dalle creazioni più esclusive, semplificate ed impoverite attraverso l’impiego di materiali più economici e il ricorso a tecniche di rifinitura e cucitura proprie della confezione in serie.
Moda Boutique ed Alta Moda pronta sono produzioni che appartengono alla prima fase della storia della moda italiana. Decisive per assicurarle i primi successi internazionali, negli anni Ottanta sono state superate dalla confezione industriale che, attraverso la collaborazione con gli stilisti, ha reso la moda italiana autonoma e creativa nell’elaborazione dell’offerta di un nuovo prodotto di moda.
L’Haute Couture
Gli abiti di sartoria, a differenza di quelli confezionati nelle taglie standard, sono pensati per una donna/uomo specifica/o. Non potremmo parlare di “haute couture”, o alta moda, senza citare Charles Frederick Worth, il padre fondatore. Worth fu il primo couturier a diventare una stella della moda.
Nato nel Lincolnshire, in Inghilterra, nel 1825, emigrò a Parigi appena ventenne, dove aprì la sua casa di moda nel 1858, il primo atelier di haute couture.
L’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III e grande appassionata di moda, lo prese sotto la sua ala protettrice e lo fece conoscere all’alta società.
Fu creatore di magnifici abiti per la famiglia reale, la nobiltà, le attrici e i “nouveaux riches”, realizzati con tessuti preziosi, in particolare l’artista era specializzato per gli abiti da sera di tulle bianco.
L’artista – stilista fu il primo ad utilizzare le modelle ed a presentare le collezioni nonché firmò a mano le sue creazioni.
Nei primi del XX secolo altri couturier si riunirono nella Chambre Syndicale de la Couture Parisienne, promuovendo le loro creazioni nei mercati di oltreoceano ed anche organizzando le sfilate parigine.
L’Haute Couture di oggi che vanta importanti nomi del settore, è un mix eccentrico di abiti incantevoli e di buona vestibilità, dietro ai quali si nasconde il lavoro meticoloso dei più grandi artisti della moda.
Dal tessuto di Fustagno al “Jeans”
Nel XVI secolo, in Liguria, esattamente nella città di Genova si ha l’origine del tessuto “Jeans”. Ciò è stato attestato attraverso reperti storici, che confermano l’ampia diffusione di questa stoffa nel territorio genovese.
Tradizionalmente il “jeans” non è altro che un tessuto di “fustagno” largamente impiegato sia nell’abbigliamento che nell’arredamento della tradizione popolare.
L’etimologia del termine americano “Blue – jeans” deriva dall’unione del sostantivo “Blue” - colore blu - e “Jeans” – fustagno, tessuto impiegato dalle masse popolari.
Nel Medioevo i “Fustagni” rappresentavano tessuti di cotone misti a lana o lino, aventi una struttura composta da una trama di cotone ed un ordito di lana.
Gli addetti alla lavorazione di questi tessuti erano contadini che non facevano parte delle corporazioni, ma bensì che svolgevano l’attività di tessitura nei periodi di pausa dal lavoro dei campi.
Varie sono le teorie legate alla derivazione etimologica della parola “Fustagno”: alcuni ritengono che derivi dal latino medievale “fustaneum” da “fustis”, che significava “legno d’albero” che a sua volta si deduceva dal greco “xylina lina”, ossia “albero di lana” simile al termine della lingua corrente tedesca “Baumwolle”; altri ipotizzavano l’origine del termine dal quartiere del Cairo chiamato Fustat o Fostat ma si ritiene che sia improbabile tale derivazione in quanto la lavorazione non era tipica dell’Egitto; altri ancora ritenevano che il termine derivasse dall’India, oppure dall’arabo “fustan”, termine che identificava una stoffa pesante di cotone perlopiù con ordito di lino.
La teoria sull’origine etimologica del fustagno si è conclusa con la conferma che tale tessuto di cotone era mischiato a lana o lino e con il passare del tempo e l’evoluzione della tecnica produttiva presentava una struttura a trama di cotone e ordito di lino. Si evidenzia che ogni città che produceva fustagno adottava regole particolari a seconda degli usi locali e per questo motivo si generavano variazioni del nome della stoffa a seconda del centro di provenienza del tessuto.
Una delle caratteristiche comuni dei fustagni era la modalità di fissaggio della superficie, che non era piana ma presentava un aspetto lanuginoso ottenuto con una lavorazione (cardatura) attuata con il “cardo”, al contrario l’armatura (procedura secondo cui si intrecciano ordito e trama) non era l’elemento identificativo della lavorazione, si applicavano indistintamente sia l’armatura a tela che quella diagonale.
Il motivo per cui l’origine di questa stoffa viene ricondotta a Genova è legata al fatto che i “fustagni” genovesi venivano commercializzati ed esportati in altri mercati tra i quali quelli inglesi che ribattezzarono tali stoffe con il termine fustagni di “Geanes” da cui “jeans”, materiale di media qualità e prezzo competitivo, adeguato alle esigenze del mercato inglese.
È stata proprio il “paradosso”: media qualità a basso prezzo, a consentire la crescita produttiva di questo tessuto, il cui target di destinazione comprendeva non solo le classi medio – povere che lo utilizzavano nell’abbigliamento quotidiano ma anche le classi aristocratiche, affascinate dalla versatilità d’impiego di questa stoffa.
Il colore Blu al tessuto non è una prerogativa ligure, ma grazie all’attività portuale della regione era possibile reperire svariate materie prime come le tinte per i tessuti.
Nei primi del cinquecento le tinte largamente impiegate per dare il colore blu ai tessuti erano il guado, estratto dalle piante di isatis, importate dall’Africa nel XII secolo e poi coltivate in Italia, oppure con l’indaco, che veniva importato dall’Oriente grazie alla conquista delle nuove colonie commerciali.
Anche le classi agiate liguri impiegavano la “tela turchina” soprattutto nell’ambito delle confezioni per l’arredamento, per la realizzazione di tende, biancheria da letto ed intima.
Un esempio di tutto questo è attestato dagli inventari dei beni di molte nobili famiglie genovesi: l’Inventario dei Beni di Barnaba Spinola del 1772 e nell’Inventario di Livia Centurione Pallavicino del 1758.
Nella tradizione ligure molte sono le testimonianze e l’impiego di questo tessuto: Teli della Passione, vesti delle statuine dei Presepi Genovesi realizzati dallo scultore Pasquale Navone nella seconda metà del Settecento, costumi popolari liguri.
Tra i Teli della Passione più rilevanti per la tradizione di Genova sono quelli realizzati da Pier della Vega e dalla sua equipe di artisti.
Molti di questi teli sono stati originariamente conservati nell’Abbazia di San Nicolò di Boschetto, successivamente durante il periodo delle soppressioni napoleoniche (1810) diventarono proprietà delle famiglie aristocratiche genovesi.
Il motivo per cui si adottava il jeans per dipingere i temi della fede era legato al fatto che le figure in bianco sullo sfondo blu dei teli accentuavano il coinvolgimento emozionale del fruitore – fedele, portandolo alla percezione della sofferenza del Cristo, inoltre, come ha espresso Vassily Kandinsky, il blu trasmette un impulso per l’uomo alla ricerca dell’infinito e della sua intima natura che tende al desiderio di purezza e di contatto con il soprannaturale.
Significative testimonianze dell’impiego del jeans, il fustagno genovese per eccellenza, sono state le statuine del presepe del Museo Luxoro. Queste statuine compongono un gruppo omogeneo e dallo stile degli abiti derivano dal periodo 1770 – 1780.
La stoffa con cui sono stati realizzati i vestiti delle statuine presentava un’armatura diagonale con ordito di lino o canapa colore ecru e trama blu (jeans). L’abbigliamento che indossavano i personaggi del Presepe era composito e dimostrava come i tessuti di cotone venivano ampiamente combinati per la realizzazione di differenti capi: camicie (cotone fino o lino), gilet, calzoni al ginocchio e casacche o marsine dalle falde stondate, ecc… .
Alcune dimostrazioni legate all’impiego della tela di cotone blu, risalenti all’Ottocento, conducono ai costumi popolari realizzati nella zona della Spezia, in particolare nella Lunigiana, ottenuti da manifatture casalinghe. Tale tessuto di cotone era chiamato localmente “budana”, ed era realizzato perlopiù dalle tessitrici di Valdipino, uno dei centri principali della tessitura a telaio, da cui veniva esportato nel golfo della Spezia, in Val di Vara ed in Val di Magra.
Il fustagno ligure per eccellenza, grazie alla sua origine in una terra di mare come la Liguria e di conseguenza tramite i suoi porti, si è diffuso in altri mercati sino ad approdare nella seconda metà dell’Ottocento in America con il nome di “Jeans”, inserendosi così in una nuova dimensione contraddistinta dalla sinergia di culture ed esigenze distinte che hanno portato alla sua internazionalizzazione d’impiego.
Cenni storici dai ricami a riporto ai dipinti su seta sempre a riporto
Tra le tecniche sviluppatesi nella tessitura genovese si evidenziano i ricami a riporto.
Il ricamo per applicazione era molto praticato a Genova ed ancora oggi questa tecnica conserva la tradizionale definizione di “ricamo a riporto”.
Questa tecnica consiste nell’applicazione di pezzi di tessuto, tagliati secondo un disegno, ad un tessuto di fondo e, secondo testimonianze settecentesche, era già in uso presso i romani.
Il metodo per eseguire questo tipo di ricamo si articola in due operazioni: la prima concerne il tessuto da tagliare, la seconda il sistema di applicazione delle forme ottenute alla stoffa scelta come supporto.
Per ottenere gli elementi con cui realizzare il decoro è necessario preparare un disegno su carta e poi tagliare il tessuto da applicare, facendo in modo di evitare il più possibile sprechi.
L’applicazione dei ritagli ottenuti al tessuto di supporto si esegue spalmando colla sul retro di ogni frammento, specialmente lungo i contorni per evitare sfilacciature.
I contorni vengono anche assicurati con filze a cucito e profilati con cordoncino , posizionato in modo da sottolineare anche le linee interne e le nervature.
I riporti sono perlopiù in raso e/o velluto tagliato unito in colori piuttosto vivaci; in particolare verde, azzurro, rosso e bianco per frutti e le bacche, mentre il tessuto di fondo più utilizzato nel ‘600 è il giallo.
I riami a riporto erano prevalentemente eseguiti su tessili destinati all’arredamento ed all’uso liturgico, forse anche perché oltre ad una valutazione di ordine estetico si teneva in considerazione la buona consistenza e quindi la durata del tessuto.
I teli conservati presentano per lo più forme rettangolari ed erano probabilmente in origine parti di rivestimenti di letti o mantovane; quelli di dimensioni maggiori potrebbero essere stati coprisedili o copritavola. A partire dal ‘700 i ricami a riporto ebbero un ruolo da protagonista nel decoro delle portiere.
Dagli inventari è emerso che ogni palazzo aristocratico ne erano conservati parecchi esemplari. Perlopiù decorati con lo stemma di famiglia al centro, e rappresentavano un complemento d’arredo, che enfatizzava altresì l’importanza della famiglia proprietaria del palazzo.
La descrizione della vendita all’asta dei beni del marchese Francesco Donghi nel 1912, lascia capire che teli rettangolari ricamati “a riporto” fossero usati anche come ornamenti per il camino: il lotto 292 era un “Drappeggio da caminetto a due partite in raso giallo con a riporto in seta” ed il 299 presentava un “fregio del caminetto di velluto verde e rosso a riporto su fondo giallo m 2.35 x 0.29”
I teli ricamati “a riporto” della collezione costituiscono un nucleo significativo per la qualità dei pezzi e per l’ampia documentazione dell’evoluzione stilistica dei decori.
L’esempio più antico, databile verso gli ultimi decenni del ‘500 a nei primi del ‘600 è rappresentato da due teli in cui su fondo di raso giallo sono applicati riporti in taffetà rosso da cui nascono foglie e infiorescenze in raso verde, azzurro e bianco. Altri teli risalgono al alla metà del ‘600 e si caratterizzano per riporti in velluto con cromatica in azzurro e rosso di particolare impatto visivo e si ispirano ai movimenti delle foglie di acanto. Al ‘700 risale un telo rettangolare in cui i fiori sono realizzati con ritagli di sete variopinte.
La tecnica “a riporto” è stata anche utilizzata nell’800 per realizzare copricuscini e mantovane, con “riporti” su tessuti più antichi e potrebbero essere stati utilizzati dal laboratorio di Antonietta Caldironi e Luigi Fantini, specializzato in questo settore.
Cenni storici sulla lavorazione del macramè ligure
Le origini di questa tecnica possono essere ricercate nei paesi arabi ma intorno al XV secolo, attraverso gli scambi
commerciali, si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo.
A Genova ed in alcuni centri della Riviera Ligure, già conosciuta per i preziosi damaschi e velluti, ebbe un notevole
sviluppo soprattutto legato alle alternate vicende della lavorazione del lino, dove trovava impiego nella rifinitura dei
tessuti, utilizzando per l’intreccio i fili stesso dell’ordito, creando un bordo decorato, parte indissolubile del tessuto
stesso.
Nell’ambito di questa limitata produzione, l’arte dei nodi decorativi, pur così profondamente radicata alla tradizione di
Genova, mantenne sempre sostanzialmente un suo carattere “provato” al di fuori dei grossi circuiti commerciali.
Inoltre, a differenza dei merletti a fusello ed ad ago, morbidi e sottili, la consistenza del macramè non trova utilizzo nel campo della moda, a parte qualche rara eccezione, relegando questo merletto ad impreziosire l’arredo della casa
genovese medioevale e rinascimentale, mantenendo costante anche nei secoli successivi questo suo legame con la
biancheria di uso domestico.
Questa lontananza dal mondo della moda e la produzione tramandata nell’ambito familiare o nei conventi femminili, lo riserva dall’evolversi stilistico, mantenendo inalterati i motivi che, nonostante le infine varianti, sembrano non cambiare mai nel corso dei secoli.
Il rinnovato interesse per le parti applicate e decorative di fine Ottocento inizio Novecento vede nascere, a fianco della produzione industriale dei pizzi, le prime collezioni finalizzate alla creazione di repertori e campionari da utilizzare nelle numerose scuole di merletto nate in tutta Europa, dando luogo a varianti tipicamente nazionali, se pur con caratteristiche diverse. In questo revival dei pizzi antichi il macramè trova ampi consensi e le riviste femminili e i manuali insegnano a realizzare con questa tecnica non solo vari tipi di frange decorative, ma oggetti di tutti i tipi, quali cinture, intarsi per ombrellini, cuscini, tende, babbucce, borse e collane con inserzioni di perle in vetro.
Il repertorio decorativo tipico del macramè genovese, che aveva dato frutti di così alto livello artistico, conosce il suo
definitivo tramonto e diviene monopolio esclusivo delle abilissime merlettaie del levante genovese alle quali spetterà il compito di tramandare la tecnica raffinata fino ai giorni nostri.
Oggigiorno alla produzione sempre più sporadica delle merlettaie si affianca l’interesse e la sperimentazione di alcuni artisti contemporanei che hanno rivisitato questa tecnica. Non si tratta più di arti applicate ma di espressioni creative pure ed originali, completamente libere da ogni tipo di uso pratico tradizionale.
Il macramè
Il macramè, meglio conosciuto come “pizzo a nodi” è una tecnica in cui una serie di fili verticali vengono variamente
intrecciati ed annodati a mano, per formare un consistente merletto dal disegno geometrico, talvolta terminante con
frange. Con lo stesso sistema di annodatura di fili verticali ma variando il tipo e grossezza del filato, si possono ottenere manufatti molto diversi da loro.
La lavorazione tradizionale del macramè su tessuto sfilato
Il metodo che consente di ottenere il merletto a macramè, il più prezioso e probabilmente il più antico di questi, prevede l'intreccio dei fili dell'ordito del tessuto stesso (tradizionalmente in lino) preventivamente attorcigliati tra loro ( in numero di tre o quattro fili) per creare una serie di cordoncini che verranno poi intrecciati per andare a formare un bordo, dell'altezza desiderata, che resta parte indissolubile del tessuto stesso.
Il supporto utilizzato per la sua esecuzione è chiamato “cavalletto” ed è composto da due tavole rettangolari, lunghe e strette, disposte orizzontalmente e ortogonali fra loro. Una di esse è imbottita, ed è su questa che viene fissato, per
mezzi di spilli, il tessuto, in modo da avere davanti a se, disposte verticalmente, le lunghe frange raggruppate costituite dall’ordito.
La tecnica propriamente ligure, prevede che le serie di fili verticali vengano, mano a mano, intrecciati ed annodati tra
loro con i nodi base (nodo intero e nodo piatto) che variamente combinati tra loro in file di cordoncini orizzontali,
(verticali, obliqui, ritorti, pioppolini, nodi a pallino o a chicco, catene) ottenuti con l’ausilio di spilli fissati sul “cuscino”,
formano un preciso disegno ad andamento geometrico, terminante in lunghe frange raggruppate o libere.
Viene eseguito senza cartone (a differenza di ciò che avviene per i merletti ad ago e a fuselli), o tutt’al più ispirandosi ad un modello tratto da un campionario tramandato da una generazione all’altra.
Il risultato è una trina leggera, ma tanto consistente da sembrare scolpita e proprio per il sovrapporsi e il combinarsi di nodi radi o fitti, di pieni o di vuoti, che formano grate, rosette, rombi, colonnine, raggiere, superfici di piccoli grani
rilevati... ricorda gli intarsi e i trafori dell'avorio, stucco o marmo dell'arte islamica.
Nel caso il tessuto da decorare sia sprovvisto dello sfilato perché già orlato, si può procedere inserendo i fili
direttamente nella sua trama per tutta la sua lunghezza per procedere poi nella lavorazione di intreccio e annodatura.
Sia nel primo che nel secondo caso si possono inserire, nel disegno che si va creando, delle perline, moltiplicando gli effetti decorativi.
Una variante ottocentesca, sempre della tradizione, è quella definita “a mosaico” che si esegue disponendo una serie di fili porta nodi orizzontali e paralleli su cui si lavorano serie fitte di nodi doppi a formare un tessuto compatto come quello dell’arazzo, per il quale si possono utilizzare fili di colori diversi. I disegni per tappezzeria a punto croce possono servire da modelli, come qualunque altro motivo disegnato su carta quadrettata: ogni nodo corrisponde ad un quadretto nel disegno. Negli anni venti del nostro secolo, la direttrice della “Casa del Sole” di Torino, la Signora Cavàndoli, trovò che poteva essere un passatempo divertente e tranquillo per i bambini predisposti alla tubercolosi, ospitati dal suo Istituto. Da allora questa variante piatta e colorata del macramè, venne chiamata Cavàndoli.
La lavorazione “libera” a punto macramè
Questo metodo serve per creare bordi, colletti, cinture, borse, collane e oggetti di vario genere, con ogni tipo di fibra
tessile: seta, oro e argento filato, rafia, corda, ecc…
In questo caso si adopera un cuscino o tombolo piuttosto rigido, sul quale si fissa orizzontalmente un filo porta nodi della lunghezza desiderata. Si procede poi ad annodarvi, con nodi di avviamento, i fili destinati all’intreccio, piegati a metà.
Nella lavorazione “libera” ci si stacca dalla tradizione sia per forme che per stili, lasciando posto alla creatività
individuale e sta all’autore sviluppare il metodo e la strategia idonea a realizzare con questa tecnica ciò che vuole
esprimere. Essendo determinanti nella scelta stilistica e conferendo al lavoro aspetti estetici e strutturali diversi, l'autore
é libero di utilizzare i filati (dimensione e qualità) che riterrà più idonei (sia di origine naturale, vegetale che artificiale,
materiali inusuali e/o nati per altri usi anche provenienti dal circuito del riciclo) purché non tossici e/o dannosi per la
salute. È inoltre possibile servirsi dell’annodatura per inserire e trattenere elementi decorativi aggiuntivi, che divengono parte integrante nella trama ottenuta, purchè il prodotto finito corrisponda ai requisiti di qualità sia nella tecnica di esecuzione che nella durata dei materiali.
Sia che si tratti della lavorazione tradizionale che di quella artistica, i nodi devono essere eseguiti a mano, senza l’ausilio di alcuno strumento se non quelli che hanno funzione di bloccare il pezzo in lavorazione (solitamente degli spilli o ciò che risulta più efficace) e naturalmente rimossi al termine di questo.
Fonti:
- “Tessuti” – Galleria Nazionale di Palazzo Spinola - Marzia Cataldi Gallo – Sagep – 1999
- “Jeans! Le origini, il mito americano, il made in Italy” – mostra del Museo del Tessuto di Prato, tenutasi tra il 22 giugno – 30 novembre 2005.
- Marzia Cataldi Gallo, “Jeans per caso”;
- M. D. Lunghi – L. Pessa, “Macramè – l’arte del pizzo a nodi nei paesi mediterranei”