L´impasto di farine e acqua (più o meno salata...) è in assoluto uno dei riti-chiave dell´alimentazione mediterranea, scrigno di sapori e odori. Del resto i cereali offrono uno strepitoso rapporto nutrimento/costi, e a lungo hanno rappresentato i due terzi dell´alimentazione quotidiana occidentale.
Le farine peraltro non sono che il frutto di una progressiva sedentarietà dell´uomo, il quale abbandonò il nomadismo a beneficio dell´agricoltura. Diacronie da archeologi, dal celebre tumulo di Yumuktepe in Turchia fino a Bilancino del Mugello (FI), dove circa 30mila anni fa qualcuno cosse su pietra una focaccetta di tifa (la tifa è una canna palustre)...
Coi cereali, crudi e pestati, in origine si diede vita a impasti che certo lievitavano fuori da ogni controllo, "dominati" da una potenza malefica. Furono nel III-II millennio gli Egizi, esperti di mole e forni, ad ottimizzare finalmente alcuni processi, tanto che poi il pane assurse a rango di elemento liturgico nei culti ebraico e cristiano, a simbolo di ricchezza beneaugurale e d´innocenza (nell´Eucarestia è ormai Cristo stesso, e viene avvicinato al vino, poiché la vite è vita)...
I Greci, viceversa, forse familiarizzarono con la panificazione grazie a popoli in arrivo dal Nord (era minoica → micenea, circa 1450 a. C.), agli impasti aggiungendo ben presto il latte, lo strutto, le spezie ecc., e inaugurando nelle città più prospere attrezzati forni pubblici. Si diffuse viceversa dall´Asia la pita, disco di pasta lievitata e schiacciata che fungeva da desco per la mensa, e che approdò ben presto alle coste dell´Italia meridionale, sicché dalla pita deriveranno per via più o meno diretta - limitandoci all´Italia - il pane carasau, la piada, la sardenaira (sorella della pissaladière), i cicenielli, infine la pizza.
C´è un fil rouge anche poetico (in questo caso da Omero a Virgilio...) che lega gli alimenti: dall´arte bianca greca ecco che "originò" quella di Roma, dove alcuni impasti, piadine e "ammazzafame" divennero cibo del popolo, anzitutto la famosa - o famigerata - puls, una fluida polenta di farro, cui via via s´aggiunsero orzo, fave, lenticchie, rape e cipolle. La parola puls proviene non a caso dall´ebraico pol = fava.
Il pane in sé fu tuttavia assai diverso, per ingredienti e forme, dall´odierno. Rimase a lungo di farro, tanto che la parola farina deriva proprio da farro, ma ad esempio nell´area di Pompei, verso le prime pendici del Vesuvio, ai seminativi orticoli subentravano vari cereali (alternati a pascoli), fra cui avena miglio frumento duro e frumento tenero, a difesa dei quali si combatteva assiduamente, contro piante infestanti e formazioni fungine. Gli impasti cuocevano, come avvenne per molti dei secoli successivi, al fuoco di fascine, rimuovendo carboni e ceneri.
Alla fine, in epoca imperiale, vi fu davvero pane per tutti i gusti (e tutte le tasche), buccellati, gallette biscottate, pane a lunga conservazione per il rancio della truppa, pane integrale, pane col burro, pane aromatizzato con anice o finocchio... Frittelle e focaccine, infine, iniziarono a presenziare i carretti degli ambulanti, primi esempi di finger food da "piluccare" - come oggi - per strada, con le dita...
Lo Stato - ce lo conferma anche la scultorea tomba di Eurisace - sorvegliava i panificatori, verificava misure, calmierava prezzi. Dal 168 a.C. i forni pubblici, posti sotto il controllo degli Edili (magistrati preposti al controllo dell´urbe, dei mercati e delle attività ludiche), funzionarono a pieno ritmo, in età augustea Roma da sola ne contò oltre 400.
"Quando con il lievito si sviluppò l´arte della panificazione si diffusero molti tipi di pane: "cibarius", scuro e di poco prezzo, adatto alla fame del popolo; "secundarius" con farina integrale, amato dal parco Augusto; il "panis e flore", adatto allo stomaco dei degenti; l´"autopyrus", quasi nero e con farina non setacciata; il "siligineus", fatto col grano tenero ha il colore quasi bianco; il "parthicus" o "aquaticus" è spugnoso; il "furfureus" è quasi tutto fatto con la crusca, pertanto sazia ma non nutre. Accanto a questi tipi ci sono anche dei "pani artistici": il "pane d´Alessandria" che viene cotto infilzato sugli spiedi; il "Piceno" fatto con l´alica è cotto in una pentola di coccio, che si rompe a tavola per estrarre il pane; l´"adipatus" è condito col lardo; il "bucellatus" è un biscotto; l´"ostearius" è adatto per accompagnare le ostriche. Il fornaio impasta anche altre varietà, tra cui i pani militari: il "nauticus", il "castrensis", il "militaris" e quelli sfiziosi, come l´"artolaganum" (una pizza bianca?), lo "strepticius" (una sfoglia di farina, latte, olio e pepe cotta rapidamente su una piastra rovente".
Pian piano, così, da Roma il pane "invase" - grazie a conquiste e commerci - ampie zone d´Europa, compresa la Liguria, dove sin dai primi tempi si adoperarono comunque tutti i tipi di farina disponibile. Il che tuttora s´appalesa nei vari tipi di pane prodotti lungo l´arco regionale, con - caso per caso - farina di castagne, di grano, d´orzo, di grano saraceno (dopo la scoperta del Nuovo Mondo si panificò talvolta anche con farine di mais e di patate). Pressoché assente l´utilizzo della segale, che dà pani tendenzialmente secchi e friabili. Viceversa da panìco (un cereale affine al miglio, che dà pani scuri e inclini all´inacidimento) derivano emblematicamente sia panissa sia panigacci...
La parola pane proviene del resto da una radice messapico-ariana che allude a grano, ipso facto a nutrimento, e anche in Liguria mai espressione fu più corretta, poiché a lungo il pane nutrì la popolazione insieme a poco altro (si pensi a ricette "rurali" quali il pancotto, il panlavato, il pandorato...). Nelle zone povere s´infornava solo un giorno a settimana, il sabato mattina, prenotandosi presso il fornaio "sociale" (che sovente provvedeva anche a suonare le campane). All´impasto s´aggiungeva come "levau" (crescente) un poco d´impasto della settimana precedente, riposato in acqua tiepida, poi si copriva tutto con stracci. Il pane ligure "accompagnava" ritualmente l´autunno delle castagne (pan martin) e delle olive (pan marocco), nutriva i pastori isolati con le greggi sugli alpeggi (carpasina), saliva a bordo delle navi (gallette), festeggiava San Rocco il 16 agosto (pane di Borgomaro)...
Oggi il panorama regionale comprende fra gli altri, da levante a ponente (l´elenco non può avere alcuna pretesa di completezza):
-Pane di Pignone (SP): è un pane di patate, va consumato preferibilmente entro un paio di giorni.
-Pan marocco: pane di farina gialla, vanto - fra le altre località - di Sarzana (SP). Col pan marocco si festeggiavano le olive fra novembre e gennaio.
-Pane alle noci di Carro (SP): qui i gherigli sono nell´impasto, che riposa circa dieci minuti e al quale viene data forma ovale. Si inforna a 200° per un´oretta dentro teglie su cui si saranno disposte foglie di castagno.
-Pan martin: preparato con varie farine, cotto sotto il testo su un letto di foglie di castagno, appartiene allo spezzino (Val di Vara...) e al genovesato (valli Graveglia, Sturla...). Rituale per la festa di San Martino dell´11 novembre, è scuro e dolce, si mangia anche caldo con salumi e formaggi, e si sposa bene con le noci.
-Pane di Chiavari (GE): sovente arricchito da pasta d´olive sott´olio e/o da olive nere.
-Pane della val Bormida: pane casereccio prodotto senza grassi, con una lavorazione di alcune ore. Profumato e digeribile, un tempo veniva realizzato con vari cereali: avena, sorgo, orzo...
-Carpasina (pan d´ordii): famoso pan d´orzo secco di Carpasio (IM), ma anche di Badalucco (IM), è un´eccellente "frisella" da ammollo in acqua e aceto. Si affettava a fine cottura con lo spago. Di forma tonda, piatta, consistenza "dura", sui monti - durante la transumanza - si mangiava col formaggio brüsso (pasta di formaggi fermentata). Va cotta a bassa temperatura.
-Pan di Perinaldo (IM): era un pane a ciambella, al centro del quale si poneva una bottiglia di "rocense" (Rossese).
-Pan fritto: tipicità ad es. di Armo (IM), in duplice versione: con sale o con zucchero. Si cuoceva sulle stufe.
-Pan neigru: tipico ad esempio di Pigna (IM), a base di farina integrale, acqua, sale e lievito di birra, è un pane squadrato e scuro (neigru = nero).
-Pane di San Rocco di Borgomaro (IM):panettoncino basso e soffice, con eccelso extravergine locale, talora arricchito con semi di finocchio. San Rocco si festeggia il 16 agosto. Appestato (secolo XIV) da coloro di cui si prendeva cura, il santo - narra la leggenda - fu accudito da un angelo e sfamato da un cane che gli recava pane quotidianamente.
-Pane di Triora (IM): tondo, confezionato con 3 farine, acqua, sale e lievito di birra, pesa circa un chilo. Proteico, conservabile, sugli alpeggi si spalmava di brüsso come la carpasina. E´ detto pane delle streghe (perché un tempo si usava farina integrale con tracce di segale cornuta, che ha effetti allucinogeni a causa dell´acido lisergico...). Servirlo coreograficamente su foglie di castagno.
-Ciappe: tipicità anzitutto di Taggia (IM), sono schiacciatine all´olio, croccanti, sostitutive del pane. A dischetto, in forno, poi durano 20 giorni. La ciappa è in origine la lastra d´ardesia, materiale presente nelle cave della Valle Argentina.
Quanto alla
focaccia, la parola deriverebbe da focus = focolare, ma la ricetta si apparenta - fra le altre - alla schiacciata toscana, alla scaccìa catanese (variamente farcita)... Esiste un primo documento sulla focaccia ligure risalente al 1312, e sappiamo che a lungo la mangiarono persino in chiesa, durante le funzioni, sino al divieto-scomunica del vescovo Matteo Gambaro emanato a fine ´500. Il Ratto stesso, autore della prima Cuciniera genovese in qualche modo organica (1863), la incluse nel proprio ricettario: "Ungete d´olio il fondo d´una tegghia, poscia spolveratela di sale, prendete quindi un pane di pasta lievitata e schiacciatelo fin tanto che venga a coprire tutta la tegghia, pizzicatene la superficie che poscia aspergerete d´olio e di sale, indi fatela cuocere in forno".
Fra gli ingredienti, d´obbligo l´olio d´oliva extravergine (mai lo strutto!).
Quanto alla preparazione ("sorvegliando" temperature e umidità!), occorre non aver fretta, trattandosi di un impasto che protrae a lungo.
La cottura, in tipiche lame (teglie) a bordo basso, prevede indicativamente una ventina di minuti di forno a 220°. Apprezzate le varianti con la salvia, le cipolle, le "pellette" d´oliva (fügassa co-e purpe), ma anche - meno correttamente - con rosmarino, timo, origano, fiori di zucca, oppure ancora sovrastata da pomodori o patate a fettine.
A Genova-Voltri, infine, l´impasto è più liquido e la focaccia più sottile, cuoce su una piastra del forno aspersa di farina di mais.
Per completare il godimento si può versare un vino bianco del territorio, ad esempio un Vermentino, o una Bianchetta, alla giusta temperatura e nei giusti calici.